Spesso mi sono interrogato su quale tipo di comunicazione fosse più efficace per condividere con il mondo ciò che facciamo.
Mi sono chiesto quale tipo di messaggio fosse più convincente per incentivare le persone a sostenere le attività che proponiamo.
Certamente la frase “Aiutiamo chi sta peggio di noi”, magari accompagnata da immagini emozionanti e commoventi, è più forte e d’impatto, anche perché fa leva sulla compassione e su una sorta di senso di colpa. Nonostante ciò, io non riesco a pronunciare queste parole, perché preferisco mettere in risalto la bellezza dello stare insieme, del divertirsi, del condividere tempi e luoghi.
Cerco di spiegarvi meglio come la penso.
Le persone con disabilità – e con loro anche le famiglie – incontrano sicuramente molte difficoltà nel condurre la propria vita. Ma crediamo forse che chi non ha una disabilità sia esente da difficoltà e viva felice e sereno? La storia dei Buffoni mi ha insegnato il contrario.
E non parlo in questo caso dei volontari e delle volontarie che hanno deciso spontaneamente di condividere con noi un po’ del loro tempo libero, ma mi riferisco a tutte quelle persone che sono state mandate in associazione per svolgere lavori socialmente utili, oppure perché hanno ricevuto un provvedimento disciplinare a scuola, o magari hanno dovuto svolgere un tirocinio o un progetto scolastico/universitario, oppure ancora perché sono state spronate dai genitori a fare nuove esperienze e ad ampliare i propri orizzonti.
Tutte queste persone, una volta varcata la soglia dei Buffoni, sono rimaste spaesate, non conoscendo l’ambiente del volontariato ed essendo abituate a trascorrere il loro tempo in ben altro modo. Molte sono entrate pensando “Che diavolo ci faccio qui?”.
Ma è proprio in quel momento che inizia il bello!
Perché una volta immerse in un luogo non giudicante, senza etichette, dove non si guarda il colore della pelle, l’orientamento sessuale, religioso, politico o il conto in banca, sono state costrette a scontrarsi con le proprie insicurezze e con le proprie paure e a spogliarsi di tutti i pregiudizi e i condizionamenti sociali.
Si sono accorte che chiacchierare con qualcuno o qualcuna a cui non interessa se sei ricc* o pover* se sei elegante o trasandat*, se hai la pancia o sei secc* come uno scheletro, è liberatorio… Hanno imparato che entrare in relazione con chi non ha paura di abbracciarti, di dirti che le sei simpatic*, che le piaci o che le stai sulle palle, è disarmante… Hanno compreso che fare amicizia con chi non ha doppi fini e non sa simulare, ma è interessat* soltanto ad avere uno scambio autentico e sincero, è pazzesco…
Ma ancora più assurdo è il fatto che si abituano, che alla fine gli piace, e che per il tempo che trascorrono in quel luogo si dimenticano di tutte le corazze che indossano quotidianamente. E spesso non ci lasciano più!
Se tengo conto di tutto questo, mi chiedo dunque che senso abbia la frase “Aiutiamo chi sta peggio di noi”. Chi aiuta chi? E chi sta peggio di chi? Noi non pronunceremo mai queste parole, e quando chiederemo alle persone di sostenerci economicamente, lo faremo in nome di un progetto educativo rivolto a tutt* coloro che decideranno di frequentare la nostra associazione, per divertirci e crescere insieme. Senza etichette.
Luca Nicolino